Giorgio, diagnosi a 18 anni
Era il settembre 2010, quando avevo appena cominciato il mio quinto anno al liceo superiore delle scienze sociali e praticavo da alcuni anni la kick boxing come sport, quando la mia vita ha scelto di deviare in una direzione inaspettata. Fino a quel momento, infatti, tutto procedeva normalmente, con i suoi alti e i suoi bassi.
Ero appena arrivato al quinto anno, quindi, i miei pensieri, erano tutti rivolti agli esami di stato e non mi preoccupavo se usciva più sangue del solito, almeno fino a quella mattina, quando il sangue decise di non smettere e continuò a sgorgare per circa un’ora. Ero appena arrivato a scuola: come spesso succedeva, avevo perso l’autobus, quindi, per non farmi perdere la scuola, mio padre mi aveva accompagnato fino all’ingresso. Appena entrato nell’istituto, iniziai a perdere sangue dal naso. Mio padre mi accompagnò al bagno. Si fermò con me per farmi compagnia e insieme attendevamo che il mio sangue si fermasse.
Dopo un po’ arrivò anche il mio professore di scienze sociali . Preoccupato di quanto mi stava accadendo decise di intervenire. Chiamò l’ambulanza che arrivò in pochi minuti e di corsa fui portato al policlinico Gemelli di Roma. Restai in pronto soccorso per tutta la notte e il giorno dopo mi rimandarono a casa, credendo che la situazione si fosse stabilizzata. In realtà non era proprio così. La verità è molto più semplice.
La verità è che quando una malattia è una malattia rara non si sa mai come muoversi. L’ambulanza è dovuta tornare nuovamente appena rientrai a casa, perché ricominciai a sanguinare e questa volta la situazione si era fatta critica. I miei valori di emoglobina erano scesi a 3 g/dl, quando normalmente dovrebbero essere 14/18 g/dl, quindi sì, ho rischiato la vita. Ero lì, steso sul lettino del pronto soccorso. Il sangue continuava a scendere. Non si capiva perché non si fermasse. Era come se non riuscissi più a pensare a nulla. Mi misero dei tamponi nel naso ed è in quel momento che provai il dolore più forte della mia vita. Un dolore allucinante che mi saliva fino al cervello. Una tortura. Credo fosse necessario per bloccare l’emorragia, così almeno dicevano i medici, ma in realtà, il tampone, per quel genere di problema, fa più danni di quanti ne ripari. Forse, solo adesso, capisco che in quel momento, quella era l’unica soluzione. Sono stato lì per un bel po’ di tempo. I medici non sapevano cosa fare.
Ero un caso da studiare. Dovevano analizzarmi per cercare di scoprire cosa mi stesse succedendo. Scoprirono, così, che avevo delle fistole ai polmoni. Mi operarono per quelle. Alcune me le portai dietro per un po’ di tempo e solo dopo qualche mese venni operato nuovamente per chiuderle definitivamente. Mi era stato detto che avrebbero dovuto chiudermi il setto nasale in modo da non farlo più sanguinare; fortunatamente, poi scoprirono la ragione di tutto questo e si arrivò a una soluzione meno catastrofica.
Quindi sono stato operato al naso con il laser per chiudere quelle vene che sanguinavano, con la speranza che poi non lo avrebbero più fatto, anche se hanno ricominciato dopo qualche settimana, ma in modo decisamente meno imponente e… posso ancora sentire i profumi. Tutto questo è successo in meno di tre anni e alla fine non ho più potuto riprendere a fare lo sport che praticavo. Insomma prendere pugni sul naso dopotutto non mi aiuterebbe. Credo che a un certo punto della vita la realtà presenti il conto a tutti e anch’io mi sono reso conto che sono Giorgio Fantozzi e ho un problema: non riesco a stare male. Ci ho provato, ho pensato che forse non mi rendo conto di quello che succede, ma credo che tutti abbiano i propri problemi, o meglio, tutti hanno le proprie opportunità.
Perché più che un problema ho sempre visto questa cosa come un’opportunità e non perché sto cercando di nascondere una realtà che fa male, cui non puoi opporti se non nascondendoti dietro a tante fantasie, ma perché c’è chi riesce a vedere aldilà del momento, aldilà del precipizio. Fa male, è difficile voltare pagina e come puoi pensare che tutto torni com’era, dopo che sono successe tante cose brutte? Credo, però, che quando sei nel dolore e ci vivi per un po’ di tempo, cominci ad analizzarlo e ti rendi conto che ha molti volti nascosti. Il dolore è l’unico in grado di aprirti gli occhi realmente, mostrandoti cose che altrimenti non vedresti.
Il dolore è un muro che t’impedisce di andare avanti. La malattia non manda avanti, siamo tutti fermi lì con la testa. Abbiamo questo muro di fronte e abbiamo paura. Fa paura se dici che non esiste una cura medica in grado di aprirti quel muro permettendoti di andare, ma in realtà il lucchetto lo stiamo tenendo chiuso noi. La malattia, ogni genere di malattia, colpisce due volte: una volta nel fisico e lì non puoi farci nulla, ti rendi conto di ciò che è stato solo dopo che è passata e che i dottori hanno fatto il loro lavoro, quindi, ecco che torna a colpire la seconda volta, nella testa. Ho sempre creduto che il male peggiore, che ogni malattia generi, non sia quello fisico, che prima o poi, passerà o si affievolirà, ma quello psicologico, perché la malattia è subdola, ti lascia credere che sia solo un fatto fisico, ma c’è una parte peggiore di quello che ti fa sul fisico ed è quello che ti succede nella mente. Cominci a credere che passi una soglia da cui poi non potrai più tornare indietro, quindi tutto quello che è stato fa parte del passato e da ora devi cominciare a vivere in un nuovo modo, devi cominciare a fare i conti con la tua malattia, come se ci fosse qualcuno che ti punta la pistola contro e ogni istante della tua vita, devi pensare a quella pistola puntata sulla tua schiena. In poche parole ti entra nei pensieri ed erge un muro.
Un calciatore che si rompe una gamba in un contrasto, non sarà più lo stesso e questo non perché il suo fisico non sarà più in grado, ma perché avrà paura di tornare a colpire con quella gamba, come faceva prima ed è qui che la malattia ha eretto il suo muro. Riuscendo quindi a rompere il muro ti rendi conto che hai una strada vuota davanti e tutto il tempo che vuoi per percorrerla. Quando sono tornato a casa dall’ospedale, ho preso la mia chitarra, ho cominciato a suonare e a scrivere: in poche parole ho scoperto la mia passione. Sinceramente a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se non avessi passato quello che ho passato.
Quell’esperienza mi ha fatto crescere, mi ha fatto scoprire la musica e mi ha fatto diventare un positivo cronico, perché ho capito che, comunque, c’è sempre un’opportunità nascosta dietro al dolore. Quest’estate, una mia vecchia amica di scuola, che non vedevo più dal giorno in cui sono stato portato via con l’ambulanza, mi ha chiesto: ma tu come ti senti, come la vivi? Fino a quel giorno in realtà non mi ero posto quella domanda, pensavo che la situazione si stesse stabilizzando, ma non pensavo a come conviverci per tutta la vita. Lì, quindi, mi è uscita spontanea la risposta: in realtà una volta che riesci ad abbatterla mentalmente non pensandoci più, quello che resta della malattia non è poi un granché. Sinceramente non mi sento nemmeno in diritto di sentirmi disagiato con questa cosa, perché non ti permetterà di svolgere una vita perfetta, ma tutto sommato non è una situazione estrema.
Non posso sentirmi sfortunato pensando alla gente cui hanno scoperto malattie mortali o simili. Mi è capitato di vedere alla televisione un programma che raccontava di gente senza braccia né gambe, con malattie rare, che impedivano loro di compiere anche i movimenti più semplici e comunque loro non si abbattevano e facevano qualsiasi cosa per svolgere una vita normale e felice. Ho visto in loro una forza di volontà, una voglia di vivere, un coraggio ineguagliabile: anche loro avevano annientato la malattia psicologica, anche loro erano riusciti a buttare giù il muro ed erano felici.
Quando senti storie così, quando pensi alle malattie dure, a quelle che ti tolgono la speranza, ti rendi conto di quanto sei fortunato. Ti rendi conto di quanto sia inutile stare male quando esiste gente in condizioni peggiori, che vive più felicemente di te e che sì, magari quella perfezione che volevi non puoi raggiungerla, ma l’essere umano è imperfetto quindi non avresti potuto raggiungerla ugualmente. Credo che ogni persona costruisca la sua normalità in base alle esperienze che fa, il lavoro e lo stile di vita, quindi non esistono persone diverse, siamo tutti uguali nella nostra diversità e non c’è da preoccuparsi.
La mia normalità sta nel perdere quei minuti ad asciugare il sangue dal naso quando esce, scrivere canzoni, e questo lo devo in parte all’HHT, e nel passare un giorno all’anno in ospedale a fare delle visite, come farebbe ogni sportivo che si appresta a cominciare la nuova stagione. Quello che è stato è stato e non lo posso cambiare, ma ormai la malattia l’ho sconfitta, non fa più male. In fondo per vincere a volte bisogna solo cercare il lato positivo.